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LIBIA: LE VERE RAGIONI DELLA GUERRA
LA GUERRA DELLA NATO IN LIBIA E’ DIRETTA
CONTRO LA CINA
L’AFRICOM e la minaccia
alla sicurezza energetica nazionale della Cina
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F. William Engdahl è l’autore
di Full Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World
Order
La decisione presa negli ultimi mesi dalla NATO di bombardare la Libia,
sotto la direzione di Washington, allo scopo di ottenerne la sottomissione
– con un costo per i contribuenti americani pari circa ad 1 miliardo
di dollari – ha poco o nulla a che vedere con ciò che l’amministrazione
Obama definisce una missione “per proteggere i civili innocenti”.
In realtà, tale aggressione fa parte di un più ampio assalto
strategico, progettato dalla NATO e dal Pentagono, che ha l’obiettivo
specifico di porre sotto totale controllo quello che è il tallone
d’Achille della Cina, e cioè la sua dipendenza strategica
dalle enormi quantità di petrolio greggio e gas che vengono importate
dall’estero. Oggi la Cina è il secondo maggior importatore
mondiale di petrolio dopo gli Stati Uniti e la distanza tra i due si
sta rapidamente colmando. Se diamo un’attenta occhiata ad una
cartina dell’Africa e poi osserviamo l’organizzazione in
Africa del nuovo African Command (AFRICOM) del Pentagono, il quadro
che ne emerge è quello di una strategia accuratamente predisposta
per controllare una delle più importanti fonti strategiche della
Cina per l’approvvigionamento di petrolio e materie prime.
La campagna militare della NATO in Libia è stata ed è
ancora condotta per il petrolio. Ma non semplicemente per appropriarsi
del greggio libico di alta qualità o perché gli USA siano
ansiosi di procacciarsi fornitori esteri affidabili. Essa serve invece
a controllare l’accesso della Cina alle importazioni petrolifere
di lungo termine dall’Africa e dal Medio Oriente. In parole povere,
serve a controllare la Cina stessa. Geograficamente, la Libia è
collegata a nord, attraverso il Mediterraneo, direttamente all’Italia,
sede della compagnia petrolifera italiana ENI, che è stata per
anni il maggiore operatore estero in Libia. A ovest confina con la Tunisia
e con l’Algeria. A sud confina col Ciad. A est confina sia col
Sudan (oggi diviso in Sudan e Sudan Meridionale) che con l’Egitto.
Ciò dovrebbe dirci qualcosa sull’importanza che la Libia
riveste per la strategia di lungo termine dell’AFRICOM statunitense,
in vista di un controllo sull’Africa, sulle sue risorse e sui
paesi in grado di accedere a tali risorse.
La Libia di Gheddafi aveva mantenuto uno stretto controllo nazionale
dello Stato sulle ricche riserve di greggio libico “leggero”.
Secondo i dati del 2006, la Libia possedeva le più ampie riserve
petrolifere accertate di tutta l’Africa, superiori di circa il
35% a quelle della stessa Nigeria. In anni recenti, concessioni petrolifere
erano state accordate a compagnie cinesi, russe e di altri paesi. Non
c’è dunque da sorprendersi che un portavoce della cosiddetta
opposizione che proclama la propria vittoria su Gheddafi, Abdeljalil
Mayouf, il quale è addetto alle pubbliche relazioni dell’azienda
petrolifera dei ribelli (la AGOCO), abbia dichiarato alla Reuters: “Non
abbiamo problemi con le compagnie petrolifere di paesi occidentali quali
Italia, Francia e Regno Unito. Ma potremmo avere delle riserve politiche
verso Russia, Cina e Brasile”. Russia, Cina e Brasile sono paesi
che si sono opposti alle sanzioni ONU contro la Libia oppure hanno fatto
pressione per ottenere una soluzione negoziale del conflitto interno
e per porre fine ai bombardamenti della NATO.
Come ho già spiegato nel dettaglio altrove (1),
Gheddafi, vecchio adepto del socialismo arabo sulla linea tracciata
da Gamal Nasser, aveva utilizzato i proventi petroliferi per migliorare
le condizioni del suo popolo. Le cure sanitarie erano gratuite, come
anche l’istruzione. Ogni famiglia libica aveva diritto ad un bonus
di 50.000$ da parte dello Stato per l’acquisto di una casa e i
prestiti bancari venivano concessi in base alle leggi islamiche anti-usura,
senza interessi. Lo Stato era privo di debiti. Solo grazie alla corruzione
e all’infiltrazione massiccia nelle zone dell’opposizione
tribale presente nella parte orientale del paese, la CIA, l’MI6
e altri operativi dell’intelligence NATO sono riusciti –
al costo di circa 1 miliardo di dollari e di violenti bombardamenti
NATO contro i civili – a destabilizzare i forti legami che esistevano
tra Gheddafi e la sua gente. Perché dunque la NATO ed il Pentagono
hanno condotto un assalto così folle e devastante contro una
pacifica nazione sovrana? E’ chiaro che uno dei principali motivi
era quello di completare l’accerchiamento delle fonti di petrolio
e materie prime che la Cina importava dal Nord Africa.
L’allarme del Pentagono sulla Cina
Passo dopo passo, negli ultimi anni Washington ha iniziato a diffondere
la percezione che la Cina, la quale fino a un decennio fa era “il
caro amico ed alleato dell’America”, stesse diventando
la maggiore minaccia alla pace mondiale a causa della sua immensa espansione
economica. Dipingere la Cina come il nuovo “nemico”
è stato complicato, visto che Washington dipende dalla Cina per
l’acquisto della maggior parte del debito governativo americano,
sotto forma di buoni del Tesoro. Ad agosto il Pentagono ha pubblicato
il suo rapporto annuale al Congresso sulla situazione militare della
Cina. (2) Quest’anno tale rapporto ha fatto
suonare in Cina molti campanelli d’allarme, a causa del nuovo
e sgradevole tono con cui è stato redatto. Il rapporto affermava
tra l’altro: “Nell’ultimo decennio, l’esercito
cinese ha potuto beneficiare di robusti investimenti in hardware e moderne
tecnologie. Molti sistemi moderni hanno raggiunto la piena maturità
e altri diverranno operativi fra pochi anni”, scriveva il
Pentagono nel rapporto. Aggiungendo: “Rimangono incertezze riguardo
al modo in cui la Cina deciderà di utilizzare queste crescenti
capacità... l’ascesa della Cina al ruolo di attore internazionale
di primo piano sarà probabilmente il principale tratto distintivo
del panorama strategico dei primi anni del 21° secolo”. (3)
Nel giro di due o forse di cinque anni, a seconda di come il resto del
mondo reagirà o giocherà le sue carte, la Repubblica Popolare
Cinese verrà dipinta dai media di regime dell’Occidente
come una nuova “Germania hitleriana”. Se questa
sembra oggi una cosa difficile da credere, si pensi a come ciò
è stato fatto con altri ex alleati di Washington quali l’Egitto
di Mubarak o lo stesso Saddam Hussein. A giugno di quest’anno,
l’ex ministro della marina militare americana, oggi senatore della
Virginia, James Webb, ha stupito molte persone a Pechino, dichiarando
alla stampa che la Cina si sta rapidamente avvicinando a quello che
egli ha definito “momento-Monaco”, in cui Washington
dovrà decidere come mantenere un equilibrio strategico. Il riferimento
era alla crisi cecoslovacca del 1938, quando Chamberlain optò
per un accordo con Hitler sulla Cecoslovacchia. Webb ha aggiunto: “Se
si guarda agli ultimi 10 anni, il vincitore, sul piano strategico, è
stata la Cina”. (4)
La stessa efficiente macchina di propaganda del Pentagono, guidata dalla
CNN, dalla BBC, dal New York Times e dal Guardian londinese, riceverà
da Washington l’ordine discreto di “dipingere a fosche tinte
la Cina e i suoi leader”. La Cina sta diventando troppo forte
e troppo indipendente per i gusti di molte persone a Washington e a
Wall Street. Per tenerla sotto controllo, è soprattutto la sua
dipendenza dalle importazioni petrolifere che è stata identificata
come suo tallone d’Achille. La Libia è una mossa studiata
per colpire direttamente questo tallone vulnerabile.
La Cina si sposta in Africa
L’espansione in Africa delle compagnie cinesi che commerciano
in petrolio e materie prime è diventata motivo di forte allarme
a Washington, dove un’attitudine di velenoso diniego aveva dominato
la politica americana in Africa fin dall’epoca della Guerra Fredda.
Da quando diversi anni or sono il suo futuro fabbisogno energetico è
divenuto evidente, la Cina è diventata uno dei principali partner
economici dell’Africa, in un crescendo che ha raggiunto l’apice
nel 2006, quando la Cina ha letteralmente srotolato il tappeto rosso
ai capi di oltre 40 nazioni africane, discutendo con essi un ampio ventaglio
di questioni economiche. Niente è più importante per Pechino
che assicurare le vaste risorse petrolifere africane del futuro alla
robusta industrializzazione cinese. La Cina si è spostata in
paesi che erano stati virtualmente abbandonati da ex potenze coloniali
europee, quali Francia, Inghilterra e Portogallo.
Il Ciad è un caso emblematico. Il più povero e il più
geograficamente isolato dei paesi africani, il Ciad è stato corteggiato
da Pechino, che nel 2006 ha riallacciato i rapporti diplomatici. Nell’ottobre
2007, il gigante petrolifero cinese CNPC firmò un contratto per
la costruzione di una raffineria con il contributo del governo del Ciad.
Due anni dopo iniziò la costruzione di un oleodotto per trasportare
il petrolio da un nuovo giacimento cinese che si trovava nel sud, a
circa 300 chilometri dalla raffineria. Com’era prevedibile, le
ONG finanziate dall’Occidente iniziarono ad ululare sull’impatto
ambientale del nuovo oleodotto cinese. Stranamente, le stesse ONG erano
rimaste zitte quando nel 2003 era la Chevron a prendersi il petrolio
del Ciad. Nel luglio 2011, i due paesi, Ciad e Cina, hanno festeggiato
l’apertura di una nuova raffineria petrolifera realizzata in joint
venture vicino alla capitale del Ciad, Ndjamena. (5)
Le attività petrolifere della Cina in Ciad sono straordinariamente
simili ad un altro grande progetto petrolifero cinese, realizzato in
quella che era all’epoca la zona sudanese del Darfur, ai confini
col Ciad.
Il Sudan è stato per la Cina una fonte crescente di approvvigionamento
petrolifero, con una cooperazione iniziata alla fine degli anni ’90,
quando la Chevron abbandonò le proprie attività nel paese.
Nel 1998, la CNPC iniziò a costruire un oleodotto di 1500 chilometri
che andava dai giacimenti del Sudan meridionale fino a Port Sudan sul
Mar Rosso; e allo stesso tempo iniziò a costruire una grande
raffineria vicino Khartoum. Il Sudan fu il primo, grande progetto petrolifero
d’oltremare realizzato dalla Cina. All’inizio del 2011,
il petrolio del Sudan, proveniente quasi tutto dal sud agitato dalle
guerre, garantiva circa il 10% delle importazioni petrolifere cinesi
e rappresentava oltre il 60% della produzione quotidiana di petrolio
del Sudan (490.000 barili). Il Sudan è diventato un punto vitale
per la sicurezza energetica nazionale della Cina. Secondo le prospezioni
geologiche, il sottosuolo che va dal Darfur (in quello che era un tempo
il Sudan meridionale) fino al Camerun, passando per il Ciad, è
un unico, immenso giacimento petrolifero, equiparabile forse per estensione
alla stessa Arabia Saudita. Controllare il Sudan meridionale, così
come anche il Ciad e il Camerun, è vitale per la strategia del
Pentagono di “impedimento strategico” ai futuri approvvigionamenti
petroliferi cinesi. Finché a Tripoli fosse rimasto in carica
un regime di Gheddafi stabile e forte, questo controllo sarebbe stato
assai problematico. La simultanea separazione della Repubblica del Sudan
Meridionale da Khartoum e il rovesciamento di Gheddafi a favore di deboli
bande ribelli sostenute dal Pentagono, era una priorità strategica
per il Dominio ad Ampio Raggio progettato dagli USA.
L’AFRICOM risponde
La forza più importante dietro le recenti ondate di attacchi
militari occidentali contro la Libia o dietro i più coperti cambiamenti
di regime come quelli avvenuti in Tunisia, Egitto e in Sudan meridionale
(con il fatale referendum che ha ora reso “indipendente”
questa regione ricca di petrolio) è l’AFRICOM, lo speciale
comando militare statunitense creato nel 2008 dall’amministrazione
Bush, con l’obiettivo specifico di contrastare la crescente influenza
cinese sulle vaste ricchezze petrolifere e minerarie dell’Africa.
Alla fine del 2007, il Dr. J. Peter Pham, consigliere a Washington per
il Dipartimento di Stato e della Difesa, ha affermato in modo esplicito
che tra le mire dell’AFRICOM vi è quella di “proteggere
l’accesso agli idrocarburi e ad altre risorse strategiche che
l’Africa possiede in abbondanza... un compito che contempla il
tutelarsi contro la vulnerabilità di queste ricchezze naturali
e l’assicurarsi che nessuna terza parte interessata, come Cina,
India, Giappone o Russia, ottenga il monopolio di esse o un trattamento
preferenziale”. (6)
In una deposizione di fronte al Congresso americano, resa nel 2007 a
favore della creazione dell’AFRICOM, Pham, che è membro
della neoconservatrice Fondazione per la Difesa della Democrazia, ha
dichiarato: “Questa ricchezza naturale rende l’Africa
un obiettivo invitante per le mire della Repubblica Popolare Cinese,
la cui economia in crescita... ha una sete di petrolio pressoché
insaziabile, così come la necessità di altre risorse naturali
per potersi sostenere... La Cina importa attualmente circa 2.6 milioni
di barili di greggio al giorno, approssimativamente la metà di
ciò che consuma; più di 765.000 di questi barili –
quasi un terzo delle sue importazioni – provengono da fonti africane,
in particolare dal Sudan, dall’Angola e dal Congo (Brazzaville).
C’è dunque da stupirsi del fatto che... forse nessun’altra
regione al mondo sia comparabile all’Africa quale oggetto dei
sostenuti interessi strategici di Pechino negli ultimi anni... Intenzionalmente
o no, molti analisti prevedono che l’Africa – soprattutto
gli stati ricchi di petrolio della sua costa occidentale – diverranno
sempre più il teatro di una competizione strategica tra gli Stati
Uniti e il suo unico vero e quasi equivalente avversario sulla scena
internazionale, la Cina, allorché entrambi i paesi cercheranno
di espandere la propria influenza per garantirsi l’accesso a queste
risorse”. (7)
E’ utile ricordare brevemente la sequenza delle “Twitter
revolutions” finanziate da Washington, nel corso della cosiddetta
“primavera araba”. La prima è stata in Tunisia, un
paese apparentemente insignificante sulla costa mediterranea del Nord
Africa. La Tunisia si trova però sul confine occidentale della
Libia. La seconda tessera del domino a cadere nell’operazione
è stato l’Egitto di Mubarak. Ciò ha creato una grave
instabilità dal Medio Oriente al Nord Africa, visto che Mubarak,
con tutti i suoi limiti, si era però fermamente opposto alla
politica di Washington in Medio Oriente. Anche Israele, con la caduta
di Mubarak, ha perduto un sicuro alleato. Poi, nel luglio 2011, il Sudan
del sud si è proclamato Repubblica Indipendente del Sudan Meridionale,
separandosi dal Sudan dopo anni di rivolte contro il governo di Khartoum,
finanziate dagli USA. La nuova Repubblica si è portata via il
grosso delle ricchezze petrolifere conosciute del paese, cosa che non
ha certo fatto piacere a Pechino. L’ambasciatrice statunitense
all’ONU, Susan Rice, ha guidato la delegazione americana ai festeggiamenti
per l’indipendenza, definendola “un testamento a favore
del popolo sudanese meridionale”. Ha aggiunto che, nel determinare
la secessione, “gli Stati Uniti si sono impegnati più
di chiunque altro”. Il presidente Obama ha apertamente sostenuto
la secessione del sud del paese. La separazione è stato un progetto
guidato e finanziato da Washington fin da quando, nel 2004, l’amministrazione
Bush decise di farne una priorità. (8)
Ora il Sudan ha improvvisamente perso la sua principale fonte di guadagno,
quella dei profitti petroliferi. La secessione del sud, dove vengono
estratti i tre quarti dei 490.000 barili che costituiscono la produzione
giornaliera del paese, ha aggravato le difficoltà economiche
di Khartoum, eliminando il 37% dei suoi introiti complessivi. Le uniche
raffinerie del Sudan e l’unico itinerario per l’esportazione
si trovano nel nord, dai giacimenti petroliferi fino a Port Sudan sul
Mar Rosso, nel Sudan settentrionale. Il Sudan Meridionale è stato
ora incoraggiato da Washington a costruire un nuovo oleodotto per l’esportazione,
indipendente da Khartoum, attraverso il Kenya. Il Kenya è una
delle zone dell’Africa in cui è più forte l’influenza
militare americana. (9)
L’obiettivo del cambiamento di regime orchestrato dagli USA in
Libia, così come quello dell’intero progetto per un Grande
Medio Oriente che si cela dietro la Primavera Araba, è quello
di assicurarsi il controllo assoluto sui maggiori giacimenti petroliferi
conosciuti al mondo, allo scopo di controllare le future politiche di
altri paesi, in particolare quella della Cina. Si dice che negli anni
’70, l’allora Segretario di Stato Henry Kissinger, che all’epoca
era probabilmente più potente dello stesso Presidente degli Stati
Uniti, abbia affermato: “Se si controlla il petrolio, si controllano
intere nazioni o gruppi di nazioni”. Per la sua futura sicurezza
energetica nazionale, la Cina dovrà trovare riserve energetiche
sicure in casa propria. Fortunatamente esistono nuovi e rivoluzionari
metodi per rilevare e mappare la presenza di petrolio e di gas laddove
anche i migliori tra gli attuali geologi direbbero che non è
possibile trovare giacimenti. E’ forse questo l’unico modo
per uscire dalla trappola in cui la Cina è stata attirata. Nel
mio nuovo libro, The Energy Wars, descrivo nel dettaglio questi
nuovi metodi per tutti coloro che vi sono interessati.
Note
1 - F. William Engdahl, Creative
Destruction: Libya in Washington's Greater Middle East Project--Part
II, March 26, 2011
2 – Ufficio del Segretariato alla Difesa, ANNUAL
REPORT TO CONGRESS: Military and Security Developments Involving the
People’s Republic of China 2011, August 25, 2011.
3 - Ibid.
4 - Charles Hoskinson, DOD
report outlines China concerns, August 25, 2011
5 - Xinhua, China-Chad
joint oil refinery starts operating, July 1, 201. BBC News,
Chad
pipeline threatens villages, 9 October 2009.
6 - F. William Engdahl, China
and the Congo Wars: AFRICOM. America's New Military Command,
November 26, 2008.
7 - Ibid.
8 Rebecca Hamilton, US
Played Key Role in Southern Sudan's Long Journey to Independence,
July 9, 2011
9 - Maram Mazen, South
Sudan studies new export routes to bypass the north, March
12, 2011.