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La Global Security dalla Guerra
del Golfo all’aggressione alla Libia
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Laura Tocco 5 settembre 2011 |
Laura Tocco è
dottoranda presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università
di Cagliari.
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“The brutal aggression launched last night against Kuwait illustrates
my central thesis: Notwithstanding the alteration in the Soviet threat,
the world remains a dangerous place with serious threats to important
U.S. interests wholly unrelated to the earlier patterns of the U.S.-Soviet
relationship. These threats, as we’ve seen just in the last 24 hours,
can arise suddenly, unpredictably, and from unexpected quarters. U.S.
interests can be protected only with capability which is in existence
and which is ready to act without delay. The events of the past day underscore
also the vital need for a defense structure which not only preserves our
security but provides the resources for supporting the legitimate self-defense
needs of our friends and of our allies. This will be an enduring commitment
as we continue with our force restructuring”.
George Bush, 2.08.1990, Aspen, Colorado
Con queste parole, a poche ore dall’invasione irachena del Kuwait,
George Bush introduce le basi della nuova linea estera statunitense.
La fine del Patto di Varsavia spinge gli Stati Uniti a ridefinire la
propria posizione nell’ordine internazionale correggendo gli obiettivi
del nuovo sistema mondiale. Nell’ottica dei suoi promotori, la
strategia delineata individuerebbe l’emergere di nuove sfide nel
tramonto della presunta minaccia sovietica. Infatti, la possibile anarchia
del Terzo Mondo, resa più visibile nel rinnovato scenario internazionale,
nasconderebbe gravi preoccupazioni. Pertanto, in virtù delle
parole del Presidente, gli Stati Uniti, a partire da questo frangente
storico, avrebbero il doveroso compito di modellare gli equilibri internazionali
secondo la propria impostazione ideologica. Per raggiungere questo scopo,
la manovra non esclude la violazione del principio di non interferenza
negli affari interni dello stato: è la dottrina della global
security.
Rivista più volte sotto differenti vesti, la manovra Bush rappresenta
una costante della politica occidentale dalla Prima Guerra del Golfo
ad oggi. In Kosovo, in Afghanistan, in Iraq ne abbiamo osservato i risvolti
concreti. Una sua versione, rivista da NATO e Unione Europea, dirige
oggi l’aggressione contro la Libia del Colonnello Mu’ammar
al-Qadhdhafi.
Lo Stato delle masse
Nel 1969, l’ascesa al potere del Movimento dei Liberi Ufficiali
Unionisti, sancì il declino delle politiche strategiche occidentali
in linea con le manovre del Presidente egiziano Gamal ‘Abd al-Nasir.
Qadhdhafi, leader del Movimento, assunse presto il titolo di “guida
della rivoluzione”. Nei primi anni di governo creò
nuove formule amministrative e, per limitare l’influenza dell’élite,
diede vita ad un’organizzazione di massa, l’Unione Socialista
Araba. Nel 1973, ai comitati popolari, eletti nei villaggi, nelle scuole
e nelle organizzazioni, fu permesso di giocare un ruolo di rilievo nel
governo locale e provinciale. Due anni più tardi, le loro attività
trovarono espressione a livello nazionale nel Congresso Generale del
Popolo. Questa struttura rappresentativa pose le basi per la jamahiriyyah,
la “Repubblica delle masse”. Sebbene responsabile,
in ultima analisi, davanti al Colonnello, la nuova struttura burocratica
includeva il Congresso, i comitati rivoluzionari e gli esponenti degli
“uffici del popolo”. Sintesi tra partecipazione e controllo
amministrativo, la formula di Qadhdhafi non aveva eguali in tutto il
mondo arabo. La sua rappresentatività e le sue peculiarità
lo qualificavano come una vera e propria autentica alternativa politica.
La manovra riformatrice del Colonnello venne accompagnata dall’attacco
contro i privilegi economici, realizzato attraverso un programma di
nazionalizzazione delle imprese private. Dopo aver dato vita a una grande
impresa di ingegneria idraulica, che rispondesse al problema della siccità,
elaborò un sistema finalizzato all’approvvigionamento del
petrolio e del gas. In questo programma, Qadhdhafi perseguì il
suo progetto con una determinazione e una lungimiranza tale da guadagnare
un ruolo di primo piano nella rispettabilità antimperialista.
L’aggressione al Colonnello
Negli ultimi anni, Qadhdhafi era tornato nello scenario dell’onorabilità
internazionale tanto da essere ricevuto con grandi onori dai governi
di tutta Europa. Poi, è giunta la cosidetta “primavera
araba”. E, quindi, la protesta del popolo libico.
Allo stato attuale, le manifestazioni anti-governative sembrano essere
guidate, in parte, da fattori esterni i quali avrebbero approfittato
del malcontento popolare allo scopo di soffocare l’autodeterminazione
di un paese ricco di risorse preziose.
Per realizzare questo compito, la comunità internazionale ha
redatto una fonte di legittimazione approvando la risoluzione ONU 1973,
ratificata il 17 marzo del 2011. In questo modo, l’ONU ha autorizzato
l’uso della forza militare allo scopo di proteggere i civili imponendo
una no fly zone sui cieli libici. Ancora una volta, lo spirito alla
base di questa operazione è riconducibile alla dottrina Bush.
Oggi, mentre la NATO compie i suoi massacri indistintamente sui civili
libici, le manifestazioni a favore di Qadhdhafi si sono trasformate
in azioni di resistenza che dipingono lo stesso come padre dell’antimperialismo
e vittima del complotto NATO.
Dopo l’assassinio di Abdul Fatah Younis, comandante militare del
Consiglio Nazionale di Transizione-CNT, sembrerebbe che la NATO, temendo
un insuccesso della missione, abbia assunto in prima persona la direzione
della rivolta attraverso l’uso di mercenari occidentali e ribelli
islamisti. Il CNT, costituito da svariate componenti, è stato
identificato come legittimo rappresentante del popolo libico in maniera
del tutto discrezionale dalla comunità internazionale. Tuttavia,
come esporrò in seguito, a queste condizioni, non sembra essere
l’attore adatto a guidare la transizione in Libia.
Il Post-Qadhdhafi visto dagli USA
Intanto, gli Stati Uniti preparano il loro post-Qadhdhafi. Il Council
of Foreign Relations[1] ha recentemente diffuso un documento, dal
titolo Post-Qadhdhafi Instability in Libya, che prospetta gli scenari
possibili del futuro libico. Posto che il rapporto non ammette una continuità
con il regime precedente, il think tank statunitense espone un insieme
di opzioni che non sembra proiettare verso una transizione pacifica.
All’interno vengono contemplate diverse possibilità: Qadhdhafi
potrebbe essere definitivamente estromesso, oppure, potrebbe giungere
ad un accordo che permetta ad alcuni elementi del suo regime di partecipare
al suo post o, infine, potrebbe negoziare un ruolo, più limitato,
per sè o per i suoi figli. Il documento, analizzate le ipotesi,
riferisce che, il persistere della presenza di Qadhdhafi, o dei membri
della sua famiglia, potrebbe ridurre il rischio di instabilità
del paese.
A tal proposito, lo studio si sofferma sulle fonti di precarietà
politica che potrebbero presentarsi nel caso in cui la transizione estrometta
completamente la figura del Colonnello: insurrezioni, saccheggi, guerre
fratricide, criminalità diffusa. Tra queste, inoltre, non è
esclusa la possibilità che i lealisti continuino la resistenza.
Il documento, quindi, riconosce alle forze vicine a Qadhdhafi un peso
non indifferente. Altra questione, che fa discutere sulle posizioni
attuali della NATO, è la credibilità del CNT. Lo stesso
rapporto, infatti, menziona, tra gli elementi di instabilità,
l’alta frammentazione interna al Consiglio, costuito da liberal-democratici,
islamisti, berberi, emigrati e jihadisti.
Sulla base dell’esame del documento, l’intervento sotto
l’egida NATO rappresenterebbe una possibilità per gestire
il passaggio politico e per la ripresa delle esportazioni di petrolio
e gas. Eppure, continua il rapporto, esistono diverse opzioni di successo.
Una di queste potrebbe vedere una Libia non democratica raggiungere
una condizione di stabilità. Tuttavia, la transizione potrebbe
fallire producendo uno stato di confusione politica o conducendo all’instaurazione
di regimi ostili all’interesse statunitense. Al riguardo, è
valutata anche l’eventualità che i possibili rifugiati
creino ulteriori disordini nei paesi limitrofi amplificando il clima
di precarietà regionale.
Secondo quanto esposto, la tutela delle infrastrutture e delle risorse
del paese, il problema delle armi e il mantenimento dell’ordine
pubblico rappresentano dei doveri prioritari in tutte le possibili alternative
transitorie. A tale scopo, nel documento è inclusa la possibile
creazione di un governo ad interim, riconosciuto sul piano internazionale,
o, ancora, un’operazione di peacekeeping. Tuttavia, qualora si
presenti la necessità di soffocare un’insurrezione e prevenire
possibili regimi dittatoriali, la comunità internazionale dovrebbe
provvedere prendendo in esame anche l’ipotesi dell’intervento
militare. Infine, non è esclusa l’ipotesi della piena occupazione
in caso di sfacelo dell’ordine pubblico e di conseguente crisi
umanitaria.
In sintesi, la forma mentis delle recenti operazioni, si inserisce nel
solco della global security. Il documento, infatti, non nega che il
post-Qadhdhafi possa comportare una situazione politica estremamente
problematica. Il Colonnello, conquistando consensi di una buona parte
della popolazione, che oggi porta avanti la resistenza contro l’occupazione
NATO e inneggia a lui come ad un perseguitato delle politiche occidentali,
rappresenta un elemento di stabilità per il paese. Lo stesso
rapporto descrive un futuro scenario pieno di insidie e di precarietà
politica, sociale ed economica. Non solo, ma ammette anche che il coinvolgimento
del Colonnello nel futuro politico della Libia sia una delle poche possibilità
in grado di attenuare questa fragilità. Infatti, la sua figura,
in qualche modo, fornirebbe delle garanzie al popolo libico. Tanto è
vero che il rapporto, nel momento in cui si spinge ad analizzare il
riscontro di alternative di transizione che escludono la sua partecipazione,
giunge a valutare l’ipotesi di interventi armati e di vere e proprie
occupazioni Il CNT, dunque, rappresenterebbe solamente uno strumento
formale per facilitare la presenza delle forze occidentali in Libia.
Per tale ragione, si riconosce l’incapacità del Consiglio
nel gestire la transizione attribuendo ruoli di rilievo alla comunità
internazionale che, in caso di emergenza, si presenterebbe come necessaria.
La situazione libica non sembra differire molto dall’attacco scatenato
contro Saddam Husayn. Anche in questa occasione, infatti, si assistette
ad una dura campagna demonizzatrice del raìs che intendeva giustificare
l’aggressione contro la popolazione civile. L’allarme scatenato
contro Saddam ricorda lo stesso copione libico. Anche le dinamiche di
preparazione alla transizione non sembrano differire molto. Fonti recenti,
infatti, riferiscono che la Casa Bianca abbia attivato il Libyan
Information Exchange Mechanism (LIEM), un organismo simile all’Office
of Reconstruction and Humanitarian Assistance (ORHA) di Baghdad.
Quest’ultimo istituto, di natura privata, venne istituito sotto
la coordinazione del Pentagono e fu presto assorbito dall’Autorità
Provvisoria della Coalizione (CPA). A tal proposito lascia perplessi
il fatto che, allo stato attuale, in Libia, si ignori la natura giuridica
del CNT libico e del LIEM. Queste considerazioni dovrebbero indurci
a vagliare le differenti sfaccettature delle operazioni, mascherate
dalla targa diritti umani, dove i presunti interventi umanitari sono
stati responsabili di massacri e violenze. Per queste ragioni, il documento
del think tank statunitense è prova del fatto che, a venti anni
di distanza, lo spirito della tradizione Bush continua a forgiare la
politica internazionale a difesa dello status quo dominante.
Note
[1] Il Council on Foreign Relations-CFR è una think tank statunitense,
è un’associazione privata che si occupa delle analisi della
politica estera statunitense facendo da supporto al governo statunitense.