|
|
Dalla Libia al Corno d’Africa
– scontro fra USA e Cina per il continente africano
|
|
|
Nabil Naili è un ricercatore presso
l’Università di Parigi; ha concentrato i suoi studi sul pensiero
strategico americano
Sebbene apparentemente assuma la forma del coordinamento di sicurezza
con il pretesto della “lotta al terrorismo”, in realtà
la penetrazione americana in Africa va ben al di là di ciò,
consistendo in una strategia imperiale che ambisce al controllo delle
risorse naturali e delle aree di importanza geostrategica – scrive
l’analista Nabil Naili
“Ho autorizzato il dispiegamento di un piccolo numero di
forze americane in assetto da combattimento in Africa centrale, per
fornire assistenza alle forze regionali che cercano di eliminare Joseph
Kony dal campo di battaglia…ritengo che il dispiegamento di queste
forze armate USA rafforzi la sicurezza nazionale americana, garantisca
i nostri interessi strategici, e vada a sostegno della nostra politica
estera”. Questo è un estratto del messaggio inviato
da Obama al Congresso USA.
Lo scorso 14 ottobre il presidente americano di origini africane Barak
Obama – premio Nobel per la “pace” –
ha annunciato la sua intenzione di inviare 100 soldati americani “in
assetto da combattimento” in Uganda. Questa decisione rientra
nel quadro del piano annunciato nel 2009 e finalizzato a “disarmare”
la milizia dell’Esercito del Signore (Lord’s Resistence
Army – LRA), perlomeno nella sua forma ufficiale. Per giustificare
questa mossa controversa e ribadire il suo fermo intento di non trascinare
in ulteriori missioni le forze americane attualmente impantanate nel
“cimitero degli imperi”, l’Afghanistan, o
prossime a “ritirarsi” dall’Iraq semplicemente
per ridispiegarsi in Kuwait, negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita,
o in altri teatri per diversi scopi, Obama ha dichiarato di far ciò
solo per “supportare le forze regionali che sono alle calcagna
di Joseph Kony e di altri importanti leader ribelli dell’LRA coinvolti
in omicidi, stupri e sequestri di migliaia di persone nei paesi dell’Africa”.
Egli ha sostenuto che “le forze americane, sebbene siano forze
combattenti, si limiteranno a fornire informazioni, consulenza e assistenza
alle forze dei paesi interessati, senza prendere parte ai combattimenti
con l’LRA, a meno che non sia strettamente necessario o dovuto
a ragioni di autodifesa”. L’amministrazione americana
intende anche inviare nei prossimi mesi forze combattenti nel Sud Sudan,
nella Repubblica Centrafricana e nella Repubblica Democratica del Congo,
“previo consenso da parte dei paesi ospitanti interessati”
– come se questi paesi fossero in grado di prendere decisioni
sovrane, osando rifiutare l’offerta americana, o anche soltanto
metterla in discussione.
Nel frattempo la risoluzione 2016 del Consiglio di Sicurezza ha sancito
la fine dell’operazione “Unified Protector”
in Libia – sebbene alcuni leader del Consiglio nazionale transitorio
libico avessero implorato il prolungamento della missione almeno fino
alla fine dell’anno. Tuttavia, malgrado l’affermazione del
segretario generale della NATO Anders Fogh Rasmussen secondo cui “la
nostra missione militare si è conclusa…abbiamo adempiuto
allo storico mandato delle Nazioni Unite di proteggere il popolo libico”
(egli ha anche aggiunto che la missione “Unified Protector
è una delle operazioni di maggior successo nella storia dell’Alleanza
atlantica”), a poco a poco stanno emergendo le dimensioni
dell’attacco americano al continente africano finalizzato a mettere
le mani sulle sue risorse, ad assicurare a Washington il pieno controllo
delle fonti energetiche, ed a togliere di mezzo il gigante cinese.
Sebbene gli analisti della stampa americana si siano spinti a definire
la decisione del presidente Obama “molto strana”,
“sconcertante” e “singolare”,
chi conosce i metodi della politica estera americana a partire dal 1945
non giunge affatto ad utilizzare le stesse definizioni. Si consideri
l’esempio del Vietnam. Quando la priorità divenne quella
di contenere l’influenza cinese e “proteggere”
l’Indonesia, che il presidente Nixon definiva come “il
più ricco serbatoio di risorse naturali della regione”,
il Vietnam pagò con tre milioni di vittime e con la distruzione
e l’inquinamento dei propri territori per far sì che gli
Stati Uniti realizzassero i propri obiettivi strategici. L’invasione
americana di altri paesi non ha fatto eccezione a questa regola, né
ha fatto a meno degli stessi pretesti dell’“autodifesa”
o dell’“intervento umanitario”, continuando
a far scorrere fiumi di sangue dall’America Latina all’Afghanistan,
passando per l’Iraq e poi per la Libia – perfino dopo che
simili asserzioni erano state smascherate, e simili giustificazioni
svuotate di ogni contenuto.
Dice Obama: la “missione umanitaria delle nostre forze”
consiste nel sostenere il governo ugandese affinché sconfigga
le forze dell’LRA che hanno “massacrato, violentato
e rapito decine di migliaia di uomini, donne e bambini nella Repubblica
Centrafricana”. Queste atrocità compiute dall’LRA
non sono meno feroci di quelle compiute dagli stessi Stati Uniti laddove
hanno operato le loro forze – come il bagno di sangue seguito
all’assassinio del rivoluzionario Patrice Lumumba, orchestrato
dalla CIA, o il golpe organizzato che portò al potere il tiranno
Mobutu Sese Seko.
L’ipocrisia del presidente americano tocca però nuovi picchi
quando si ostina a volerci convincere che “il dispiegamento
di queste forze armate americane” rafforzerà “la
sicurezza nazionale e la politica estera americana, e costituirà
un grande contributo per contrastare l’LRA”. Questa
milizia infatti ha continuato a perpetrare crimini vergognosi per 24
anni senza che gli Stati Uniti battessero ciglio. Oggi che il numero
dei suoi combattenti è talmente diminuito da non superare i 400
uomini, l’LRA è improvvisamente divenuto un pericolo che
toglie il sonno a Obama, e una minaccia per la sicurezza dell’impero!
L’Africa, prima dell’ultimo intervento militare in Libia,
era stata una “storia di successo” per la Cina.
Laddove gli americani seminavano distruzione e dispiegavano i loro aerei
da guerra, le loro navi e le loro basi militari, i cinesi, loro avversari
nella corsa alle ricchezze naturali, e ansiosi di soddisfare la loro
bramosia di fonti energetiche, costruivano dighe, ponti e infrastrutture.
La Libia era tra le maggiori fonti di approvvigionamento petrolifero
della Cina. Nel momento in cui la NATO ha deciso di iniziare le operazioni
militari in Libia all’insegna dell’“intervento
umanitario” per proteggere i civili, la Cina è stata
costretta ad evacuare oltre 30.000 operai, esperti ed ingegneri dal
paese, ed il loro posto sarà preso da coloro che controlleranno
le ricchezze e le risorse libiche e che si spartiranno la torta del
“saccheggio programmato” della ricostruzione. Ma
la cosa ancora più importante è che la NATO ha iniziato
a strangolare il drago cinese e a stroncare sul nascere il suo tentativo
di penetrazione in Africa.
Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti continua a cercare un
paese che accolga la sede dell’AFRICOM, il comando militare americano
per l’Africa, in sostituzione della città tedesca di Stoccarda.
Dopo aver creato pretesti sufficienti per estendere i focolai di conflitto
e le guerre a bassa intensità, dalla Somalia a Gibuti, dall’Uganda
al Sud Sudan e al Niger, per finire con la Libia “liberata”,
Washington riuscirà a imporre la sede dell’AFRICOM dovunque
vorrà, per amore o per forza.
Sebbene gli Stati Uniti abbiano sostenuto che la creazione dell’AFRICOM
rientri nel quadro degli sforzi americani per “portare la
pace e la sicurezza ai popoli dell’Africa e promuovere gli obiettivi
condivisi legati allo sviluppo, alla sanità, all’istruzione,
alla democrazia ed alla crescita economica”, come ci aveva
informato il presidente Bush nel giorno dell’annuncio ufficiale
della nascita di questo comando, i veri obiettivi – che si nascondono
dietro il linguaggio diplomatico americano, si celano dietro il “ruolo
messianico” americano della diffusione della civiltà
e del sostegno ai popoli, e prendono a pretesto ragioni di sicurezza
e lo spauracchio del “terrorismo”, dell’“estremismo”
e della “pirateria” – in realtà sono
la protezione dei molteplici interessi vitali e geostrategici dell’impero:
da quello di assicurarsi le importazioni petrolifere a quello di controllare
le fonti energetiche, di mettere le mani sugli stretti marittimi di
importanza strategica, e di opporsi con ogni mezzo a qualunque potenza
internazionale che aspiri a competere con Washington o a minacciarne
l’egemonia. Non c’è dunque da stupirsi che per questo
comando siano stati stanziati bilanci sempre più importanti,
che sono balzati dai 50 milioni di dollari del 2007 ai 57,5 del 2008,
per raggiungere i 310 milioni nel 2009.
Michael T. Klare, autore dell’importante studio “Resource
Wars: The New Landscape of Global Conflict”, continua a lanciare
l’allarme sulla penetrazione americana in Africa, la quale secondo
Klare innescherà nuove guerre. Sebbene apparentemente assuma
la forma del coordinamento e della cooperazione di sicurezza con il
pretesto della “lotta al terrorismo”, in realtà
tale penetrazione va ben al di là di ciò, consistendo
in una strategia imperiale che ambisce al controllo delle risorse naturali,
degli accessi fluviali e delle aree di importanza geostrategica.
Allorché il petrolio africano diviene “un interesse
strategico nazionale per l’America”, come ha dichiarato
il vicesegretario di Stato per gli affari africani Walter Kansteiner,
e allorché si scopre che gli USA “ricaveranno un quarto
delle loro importazioni petrolifere dall’Africa”, come
ha rivelato il rapporto Global Trends 2025, diviene chiaro il senso
dell’affermazione di Gene Kretz, l’ebbro ambasciatore americano
dopo che Tripoli era stata posta sotto la tutela della NATO: “Sappiamo
che il petrolio è il fiore all’occhiello delle risorse
naturali libiche!”.