Il declino degli Stati Uniti

Andrea Casati 21 novembre 2011
*Andrea Casati è dottore magistrale in Relazioni Internazionali (Università di Bologna)
Nel 1987 Paul Kennedy pubblicava il suo libro “The rise and fall of the great powers”. In esso, egli presagiva che gli Stati Uniti erano destinati al declino a causa dell’eccessiva spesa militare e della conseguente diminuzione degli investimenti sulla crescita economica. Kennedy non era l’unico a esprimere una certa ansia sullo status della superpotenza del “mondo libero”; il cosiddetto declinismo, alla fine degli anni Ottanta, dominava il mondo accademico statunitense. La caduta di lì a breve del muro di Berlino, seguita dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, tuttavia, rese il declinismo démodé. Gli anni Novanta si aprivano con un panorama internazionale caratterizzato da un’omogeneità ideologica prima impensabile. In quanto unica superpotenza rimasta, gli Stati Uniti erano i principali beneficiari di questa situazione. Molti intellettuali e governanti statunitensi, tuttavia, cedettero alla tentazione di interpretare il “momento unipolare” in modo trionfalistico: fu così rispolverato il sogno del “Secolo americano”, cioè della trasformazione del mondo a propria immagine e somiglianza. La politica estera delle amministrazioni Clinton e Bush figlio – quest’ultima limitatamente al periodo post-9/11 – di fatto condivideva tale fine, ma differiva nella modalità della sua implementazione generale: possiamo dire che l’approccio di Clinton considerava l’allargamento democratico come naturale conseguenza dell’allargamento del capitalismo globalizzato, mentre l’approccio di George W. Bush considerava l’allargamento democratico come naturale conseguenza della rimozione di regimi oppressivi. Il fallimento di entrambi gli approcci è evidente: da un lato la Cina ha dimostrato – almeno fino a ora – che la liberalizzazione economica non porta necessariamente a una liberalizzazione politica, mentre dall’altro i casi afgano e iracheno hanno dimostrato che la democrazia non sorge spontaneamente ovunque. Dopo quasi due decenni di “complesso di superiorità”, i limiti del potere statunitense sono ritornati prepotentemente alla luce e, con essi, il declinismo è tornato di moda, tanto che potremmo dire che oggi esso pervade quasi tutte le analisi sulla posizione degli Stati Uniti nel mondo.
In parte, il rinnovato declinismo risponde ai fallimenti della politica estera sopra citata. Vi sono, tuttavia, anche degli elementi concreti che permettono di parlare di declino americano e che si riferiscono in particolare alla forza economica relativa degli Stati Uniti. L’aspetto fondamentale su cui si basa l’esercizio del potere da parte di uno Stato è infatti la sua prosperità economica. Senza la creazione di capitali all’interno della nazione, è certamente difficile creare un esercito competitivo o avere sufficiente autorevolezza per promuovere i propri interessi davanti alla comunità internazionale. Il rapporto tra potere e forza economica non è automatico; tuttavia, il ridimensionamento di quest’ultima è un campanello d’allarme per la perdita di potere di uno Stato. Sotto questo punto di vista, saremmo effettivamente tentati di dire che la distribuzione della forza economica mondiale tende verso una riduzione consistente del vantaggio che gli Stati Uniti detengono da decenni. Se confrontiamo il grafico su base annuale del PIL mondiale con quello degli Stati Uniti, notiamo che quest’ultimo contribuisce sempre meno alla ricchezza mondiale (ovviamente, in termini relativi). È ben vero che tale processo strutturale è in atto fin dalla fine della Seconda guerra mondiale. Da un decennio a questa parte, tuttavia, potremmo essere arrivati a un punto di svolta, e ciò soprattutto per una causa esterna e, in parte minore, per una causa interna.
La causa esterna si riferisce alla rapida crescita dei cosiddetti BRICS, e in particolare della Cina. Più volte in passato si è previsto il superamento dell’economia statunitense da parte di potenziali competitori economici come il Giappone; questi, tuttavia, hanno finito per fermarsi ben al di sotto degli Stati Uniti in termini di ricchezza prodotta. Vi è tuttavia una forte differenza tra questi “vecchi” competitori degli Stati Uniti e i nuovi: la maggior ampiezza della popolazione permette di mantenere bassi i costi del lavoro più a lungo e quindi dà prospettive di una più prolungata crescita economica. L’Economist Intelligence Unit prevede che il sorpasso del PIL cinese su quello americano, a parità di potere di acquisto, avverrà già nel 2016. Questo risultato storico avrà di sicuro delle ripercussioni sulla posizione relativa dei due Paesi, e l’amministrazione Obama, con la sua recente politica estera, sembra essersene accorta.
La causa interna, invece, riguarda il rallentamento della crescita economica statunitense nell’ultimo decennio, e in particolare negli ultimi tre anni. La crisi apertasi con lo scoppio della bolla immobiliare nel 2007 è considerata la peggiore dagli anni Trenta. Le sue radici – e anche la sua persistenza – sono in buona parte imputabili all’incapacità della classe politica nordamericana. La deregolamentazione finanziaria promossa fin dagli anni Ottanta e la politica monetaria seguita dalla FED nei primi anni Duemila, infatti, hanno entrambe favorito la creazione delle condizioni alla base della crisi. A crisi scoppiata, poi, le autorità politiche hanno provveduto a rimettere in salute il settore finanziario tramite la spesa pubblica e hanno tentato invano per tre anni di stimolare l’economia tramite politiche espansive; i risultati sono stati una forte crescita dell’indebitamento pubblico e un fallimento nel rilancio consistente della crescita economica. Il settore finanziario, che negli ultimi decenni ha promosso la deregolamentazione. sommergendo la politica di finanziamenti elettorali e che è il responsabile principale della crisi, ha invece visto aumentare i suoi profitti e, sempre grazie alla sua forte influenza politica, è riuscito ad impedire l’approvazione di una riforma che riporti una regolamentazione consistente nel settore. L’economia nordamericana si trova quindi ancora oggi dipendente da poche enormi istituzioni finanziarie che rimangono troppo grandi e troppo politicamente influenti per essere lasciate fallire, il che aumenta il rischio del futuro ripresentarsi di una simile crisi.
Come è evidente dal quadro descritto, questa incapacità della politica americana non ha solo un aspetto “politico-economico”, ma anche un aspetto “politico-morale”; vale a dire, essa non è dovuta solo a scelte sbagliate in materia di politica economica, ma anche – e, direi, soprattutto – a un sistema politico che permette alle corporations e agli strati più agiati della società di favorire i propri interessi sull’arena politica tramite l’iniezione di ingenti somme di denaro nei partiti e nelle candidature a essi favorite. Tale aspetto morale non è certo una novità nel sistema politico degli Stati Uniti, ma i limiti che il fenomeno una volta aveva sono stati progressivamente ridotti, col risultato che la politica appare sempre più incapace di percepire quali sono gli interessi del Paese al di là degli interessi privati promossi dai propri finanziatori.
Come esempio di questa degenerazione politica, si considerino due recenti eventi e le loro conseguenze. Il primo evento è la sentenza della Corte Suprema Citizens United v. FEC, decisa a gennaio 2010. Essa ha proclamato che la partecipazione finanziaria delle imprese alle campagne elettorali rientra nella libertà di espressione e, di conseguenza, che le limitazioni a tale “libertà di spendere” sono incostituzionali. Come risultato, alle elezioni di midterm del 2010 si è raggiunto il massimo storico in termini di spesa elettorale da parte di gruppi esterni ai partiti, con una fortissima crescita rispetto alle precedenti elezioni analoghe del 2006. Secondo uno studio, inoltre, i candidati al Congresso che hanno vinto il seggio avevano ricevuto in media il 280% dei fondi ricevuti dai candidati perdenti. Il secondo evento è l’affermazione del movimento Tea Party alle elezioni dello stesso anno. Il Tea Party è nato come una protesta sociale della classe media bianca, religiosa e conservatrice delle suburbs contro un governo centrale percepito come distante dai propri interessi e dai propri valori. Esso, tuttavia, porta avanti un programma economico ultraliberista che favorisce le classi agiate e le grandi corporations. Non è tutto: i ‘tea partiers’ hanno applicato alla propria visione politica ed economica lo stesso tipo di fanatismo che i fondamentalisti evangelici applicano alla Bibbia. Il Partito Repubblicano – ma anche il parlamento – si trova così ostaggio di un gruppo di zeloti che ha spostato il discorso politico verso proposte economiche tanto ridicole quanto radicali, come è ben evidente nei dibattiti tra i candidati alle primarie presidenziali (si consideri come esempio il piano “9–9–9” di Herman Cain).
Insomma, possiamo dire che gli Stati Uniti si trovano di fronte a un declino strutturale anticipato dalla diminuzione dell’importanza relativa della loro economia. Tale diminuzione deriva soprattutto dalla forte crescita della Cina e di altri Paesi, ma in parte deriva anche dalla crisi economica che le autorità degli Stati Uniti hanno contribuito a creare e sembrano incapaci di risolvere. La principale ragione per questa mancanza è la degenerazione della politica americana, oggi più che mai preda di interessi economici particolari.
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